Lungo il dio fiume: su “Mississippi Solo” di Eddy L. Harris

Per la rubrica “Paratesti”, pubblichiamo la prefazione di Adam Weymouth a Mississippi Solo di Eddy L. Harris, in libreria nella traduzione di Nazzareno Mataldi e Clara Serretta.

Eddy Harris è cresciuto a St. Louis, sul Mississippi, e da bambino guardava il fiume ogni giorno. Di ritorno a casa dopo aver accompagnato il padre al lavoro, sua madre, orgogliosa di appartenere a una famiglia residente a St. Louis da sette generazioni, parcheggiava l’auto e insieme ne osservavano lo scorrere, veloce e invitante, verso il mare. “Il fiume ha catturato la mia immaginazione sin da piccolo” scrive Harris “senza più abbandonarmi”.

Il Mississippi reca con sé la storia e il mito di un’intera nazione, tagliando in due il paese, da nord a sud, nel suo viaggio di oltre tremila e settecento chilometri dal Minnesota al mare. Come il Rio delle Amazzoni o il Nilo, è uno di quei fiumi di cui abbiamo sempre sentito parlare, forse senza averne mai davvero saputo molto, e il cui solo nome evoca con forza un’atmosfera e dei luoghi.

Ricordo la gioia infantile di quando imparai a pronunciarlo. Ed è impossibile inoltrarsi nella letteratura americana senza approdare sulle sue rive. Per cominciare Mark Twain, naturalmente, che mi fu letto da bambino, e per i cui personaggi il fiume era sinonimo di libertà. Poi vennero Faulkner, Melville, T.S. Eliot, anche lui nato a St. Louis, e con la cui citazione dai Quattro quartetti del fiume come un “forte dio bruno” Harris apre la sua narrazione. È giusto vedere qui il fiume come una musa e come un dio, perché è il Mississippi ad aver fatto di Harris uno scrittore, ed è sempre il Mississippi ad avergli ridato la vita.

Nel 2016 sono partito per percorrere in canoa l’intero corso dello Yukon, in Alaska. È per me qualcosa di straordinario che negli Stati Uniti siano possibili più viaggi in canoa di diversi mesi, non uno soltanto. Ho scelto la canoa perché stavo scrivendo dei salmoni, ma anche perché non c’è modo migliore di capire un luogo che seguendone i fiumi. La distanza che ho percorso dal lago McNeil al mare di Bering, o quella coperta da Harris dal lago Itasca a New Orleans, potrebbe paragonarsi alla distanza che separa per esempio Londra dal Cairo, ma coloro che vivono lungo l’intero tracciato di un fiume sono intimamente legati gli uni con gli altri. Condividono acque simili, così come sogni simili. Nelle precedenti trasferte in remote comunità dell’Alaska, spostandomi in auto o in aereo, ero stato visto come un estraneo. In canoa venivo invece accolto nei villaggi che incrociavo, forse perché per un breve intervallo abitavo lo stesso fiume che dettava i ritmi quotidiani della vita di quelle persone.

Harris si sente vicino agli uomini sulle chiatte, i responsabili dei rimorchiatori, i pescatori, gli addetti alle chiuse, i vecchi che osservano lo scorrere del fiume seduti sulle panchine lungo le sue sponde. Il Mississippi raccoglie le acque di metà degli Stati Uniti e percorrerne l’intera lunghezza è compiere un viaggio dentro il significato stesso del paese.

Ogni personaggio diventa un appiglio in più a cui aggrapparsi per cercare di afferrare il più vasto e scivoloso degli argomenti. Kerouac, altro scrittore infatuato del fiume e che Harris forse riecheggia più di ogni altro, giunto sul Mississippi nel primo dei suoi grandi viaggi transcontinentali in autostop, scrisse del suo “forte odore ricco che è lo stesso del crudo corpo dell’America ”.

Ma questo è un viaggio tanto esteriore quanto interiore. Con le sue chiuse e le sue dighe, il fiume è stato privato di molto dell’impeto originale, e anche Harris voleva evadere dai confini che gli erano stati imposti. Aveva lasciato un lavoro d’ufficio in IBM, ma senza riuscire a sfondare come scrittore, e si avvicinava ai trent’anni. Gli Stati Uniti erano nel bel mezzo della presidenza Reagan e lui non voleva averci niente a che fare. La sua è una versione più profonda del sogno americano, la versione di Kerouac, l’emancipazione dell’individuo come qualcosa di più di una mera entità economica. È facile dimenticare quanto questo fosse inusuale nel 1986, molto prima delle diffusissime avventure raccontate via Instagram. Harris dice di volersi mettere in cammino per allontanarsi da un mondo dove la vita “è diventata un evento mediatico”; ma questo viaggio, nella sua ricerca di telefoni pubblici, l’assenza di mappe o di un equipaggiamento adeguato, la sua totale solitudine, appare antidiluviano per gli standard odierni, più vicino all’esperienza di Huck Finn che alla mia.

Siamo in presenza di un pellegrinaggio. Un pellegrinaggio è una metafora incarnata, poiché le sfide affrontate e superate diventano simboli fisici del viaggio interiore. Superata questa prova, cos’altro puoi affrontare? Canterbury o la Mecca, oppure New Orleans nel caso di Harris, forniscono una cornice al viaggio, un motivo per arrivare alla fine, ma la crescita viene dalla pratica quotidiana. Il trionfo su sé stesso è sudato. Scrive del fiume che cresce come un uomo, da tenero bambino alla sorgente a “ragazzo […] intento a conoscersi, a familiarizzare con la sua forza e la sua stazza” fino ad arrivare al fiume vero e proprio, ampio chilometri e profondo decine di metri, con le sue enormi chiatte e pesci gatto da 50-60 kg. “A poco a poco sto diventando un’altra persona” dice. “Più forte. E allo stesso tempo più sensibile.”

Verso la fine Harris piange l’avanzare del fiume, la sua morte imminente mentre defluisce nell’oceano. Ma capisce che i fiumi non muoiono, si fondono semplicemente con qualcosa di più grande. Perché, a dispetto delle preoccupazioni per il proprio personaggio, alla fine ciò che definisce un viaggio – quello di Harris, il mio, qualunque viaggio di questo tipo – sono i rapporti stretti lungo il percorso. Quando ripenso allo Yukon, la mia mente va alle persone. In quella condizione di due individui che si incontrano per poi non rivedersi mai più, e ispirati da una schiettezza che trae origine dai lunghi periodi trascorsi da soli all’aperto, degli sconosciuti condividono segreti, divulgano i misteri della loro esistenza.

È questa la ricompensa dei lunghi viaggi solitari: le parti di noi che lasciamo agli altri, le parti di loro che ci portiamo dietro. Harris scrive con acume di un filo comune di umanità che lega le persone lungo quel fiume, un filo comune a cui adesso appartiene anche lui.


A volte, però, questa visione oscura altri aspetti dell’America, non meno reali. Harris vede il suo essere nero come un semplice attributo fisico, alla pari della sua altezza o della stempiatura, forse come un “segno particolare per la polizia”, e ne scrive senza alcuna ironia. Liquida un’ingiuria razziale rivoltagli in un caffè come “una semplice battuta, […] una frase del tutto innocua”. Pur dovendo compiere un viaggio in canoa “da un posto dove non ci sono neri a uno dove ancora non siamo molto amati”, sin dall’inizio ha deciso che per la durata di questa sua avventura non si interesserà alla questione della razza; e tranne piccoli accenni qua e là, e pur riconoscendo l’esistenza di un “cuore del razzismo americano”, è una posizione a cui in sostanza rimarrà fedele. “Troppo egoista? Troppo semplicistico?” si domanda.

Il Mississippi è infestato di fantasmi, passati e presenti. È il corso d’acqua a cui si deve l’espressione “sell down the river”, che nel tempo ha acquisito il significato di “ingannare”, in riferimento agli schiavi che venivano scambiati a Louisville per essere spediti nelle piantagioni del Sud, di fatto una condanna a morte. Questo è il fiume della Cancer Alley, il “vicolo del cancro”, una striscia di territorio tra Baton Rouge e New Orleans, dove centinaia di industrie rilasciano nell’aria un cocktail micidiale di veleni, dove l’80 per cento degli afroamericani vive in quartieri inquinati e dove, in alcune comunità, il rischio di contrarre un tumore è cinquanta volte la media nazionale. Sono omissioni assordanti nella loro assenza, ma forse ci dicono di quanto il discorso sia andato avanti. Leggendo il libro a oltre trent’anni da quando fu scritto, sulla scia di un anno in cui le proteste del movimento Black Lives Matter hanno investito l’intero paese e in cui la questione razziale è stata tra i temi chiave delle ultime elezioni presidenziali americane, è qualcosa di impossibile da ignorare. Lo stesso Harris sembra essere giunto a questa conclusione. I suoi successivi due libri sugli Stati Uniti hanno affrontato apertamente il tema razziale, e nel 2016, per un documentario, ha ripercorso in canoa il fiume, questa volta con la razza al centro della sua attenzione.

Se in Mississippi Solo Harris era pronto a fare i conti con le debolezze del proprio personaggio, forse non era ancora pronto ad affrontare i tratti oscuri del suo paese. Prima doveva conoscere a fondo sé stesso.

A partire dalla citazione iniziale di Eliot, e poi proseguendo, per Harris il fiume è un dio da cui viene messo alla prova e da cui viene ricompensato. Riflette spesso sulla generosità di questo dio, sulla sua provvidenza, e avvicinandosi alla foce si interroga su che cosa lui stia dando in cambio. In cambio ha dato questo libro. Un’analisi profonda dell’America e della lotta di un uomo per trovare il proprio posto all’interno di questo paese. Il racconto estremamente umile e onesto di come un fiume ha dato forma a un uomo. Penso perciò che il fiume ne sarebbe riconoscente.

Adam Weymouth, 2021

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