Un estratto di Corpi mobili di Jane Sautière

 

Bophana è una giovane donna con il volto bello e serio, oggi emblema del centro che porta il suo nome. Il suo volto, affiorato dalla massa dei volti fotografati dagli khmer rossi al momento del loro sterminio all’S-21. La sua storia è la vessazione permanente della Storia. Bophana è morta a venticinque anni dopo essere stata violentata dalle truppe di Lon Nol, costretta dagli khmer rossi ai lavori forzati delle risaie, torturata all’S-21, giustiziata dopo aver “confessato i suoi crimini”, tra i quali il più emblematico è quello di aver addirittura scritto delle lettere d’amore a suo marito, ucciso lo stesso giorno. Perché è questo che gli khmer rossi volevano estorcere ai corpi aperti dalla tortura: delle confessioni. Migliaia di parole strappate alle bocche mutilate, sciocchezze, assurdità.

Un volto e una storia si distinguono dalle altre, illuminano le altre.
Come nell’esposizione “Faire son temps” di Christian Boltanski, che si focalizzava sull’oscillazione tra la fine e ciò che non deve finire. Si potrebbe anche dire tra vita e morte, sì.
Lo slittamento continuo dall’una nell’altra, ciò che ne facciamo. Tutti quei volti offerti nell’evanescenza, qualcosa che già sbiadisce, si cancella un po’ e si mostra in questo cancellarsi. Sì, pensiamo: quelle persone sono scomparse e lo pensiamo nel momento stesso in cui le evochiamo. Con la preoccupazione costante di aggrapparsi a un solo volto per l’incapacità di conservarli tutti (cosa alla quale aspiriamo, anche se invano ovviamente); e qui ancora un ragazzo sorridente, con la guancia segnata da una cicatrice. Caratterizzato da un incidente della sua vita, è per questo che lo distinguiamo? Come può anche accadere che lo ricordiamo proprio per quel segno (la parola che lo dice, l’incidente, e ciò che abbiamo a disposizione).
Bophana, con lo sguardo che non si abbassa, che non vacilla, per quanto già conosca l’esito della sua prigionia. Fotografata dai suoi carnefici, come tutti gli altri dell’S-21, guarda al di là del fotografo, non gli concede il suo sguardo. Che cosa vede? La sua vita? Lo schifo umano? Non lo so.

Ma nella forza di quello sguardo, di quel volto, c’è qualcosa che non può esserle tolto. La sua vita sì, gliela possono prendere e in modo abominevole. Ma non la sua anima.

Le vedete l’anima nel momento in cui vedete lei. Fatelo. Sì, guardate Bophana che parla del crimine degli khmer rossi e del limite del crimine, di ciò che non può essere sottratto a un volto umano. Viene subito da pensare a Emmanuel Lévinas: “Il volto è ciò che ci vieta di uccidere. Il volto è significazione, e significazione senza contesto.” Un volto che tra l’altro non è il ritratto, la bocca, gli occhi, il naso, ma una metafora.

Ciò che fa sì che io debba rispondere di tutti gli altri, qui è in gioco la sopravvivenza del mondo.

 

Jane Sautière, Corpi mobili / Traduzione di Silvia Turato

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