Albatri vaganti: un estratto de “La vita altrove” di Guadalupe Nettel

Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Guadalupe Nettel, La vita altrove: le prime pagine del racconto “Albatri vaganti”.

 

 

 

Albatri vaganti

L’infanzia non finisce tutta in una volta come avremmo voluto da bambini. Rimane lì, rintanata e silenziosa nei nostri corpi maturi, poi appassiti, finché un bel giorno, dopo molti anni, quando crediamo che il carico di amarezza e di disperazione che portiamo sulle spalle ci abbia irrimediabilmente trasformato in adulti, ricompare con la rapidità e la potenza di un lampo, ferendoci con la sua freschezza, con la sua innocenza, con la sua dose infallibile di ingenuità, ma soprattutto con la certezza che quello sia stato, davvero, l’ultimo barlume che ne abbiamo avuto. Quando eravamo bambini accadeva esattamente il contrario: sognavamo l’autonomia e la libertà di fare quello che volevamo, di disporre del nostro tempo, di scegliere il nostro cibo, di muoverci come ci pareva. L’infanzia ci sembrava un’interminabile sala d’attesa, una tappa transitoria tra la nascita e la vita che desideravamo. I bambini realizzano i loro sogni di rado, non ne hanno gli strumenti, dipendono dai loro genitori, e né i genitori di Camilo né i miei si preoccupavano molto di far avverare i nostri desideri. Erano oberati e offuscati dalle loro esistenze, cercavano di rimediare ai disastri che si lasciavano dietro di continuo nella loro stordita corsa verso chissà dove. Allora era una fortuna avere un amico vicino. Suonavo alla sua porta e gli bastava vedermi per capire che a casa c’era qualcosa che non andava con i miei genitori e che dovevamo cercare un rifugio dove starcene tranquilli per il resto del pomeriggio, un posto dove nessuno potesse chiederci di rientrare. Per fortuna nei dintorni c’erano un sacco di giardini, decine di arbusti dietro i quali nascondersi.

I Palleiro erano arrivati in Messico a metà degli anni Settanta, poco dopo che Camilo e io avevamo compiuto cinque anni. Erano in esilio dall’Uruguay, dove il governo militare aveva emesso un ordine di arresto per i comunisti. Erano venuti ad abitare nel palazzo in cui vivevo io, ma al quarto piano, cioè proprio sotto il nostro appartamento. In quel periodo approdarono alla Villa Olímpica anche molti altri bambini esiliati, a volte con i genitori, altre con gli zii o i nonni. Non tutte le famiglie riuscivano a emigrare insieme nello stesso momento e non tutte si erano salvate per intero. Quelle che avevano potuto organizzare un trasloco dovevano attendere mesi prima di andare al porto dove sbarcavano i loro mobili. Ma quelli che avevano un simile privilegio erano ben pochi. Quindi molto spesso l’arredamento delle loro case era scarno, minimalista, umile: lampadari di carta, mobili di vimini o di legno grezzo, cose rimediate qua e là. Tutto ciò che poteva tornare utile per costruire un nido precario.

I palazzi del complesso in cui abitavamo erano più di venti ed erano separati da sentieri ricchi di vegetazione e rampe lastricate perfette per andare in bicicletta. Tutti i pomeriggi, al ritorno da scuola, noi bambini uscivamo in massa facendo un baccano simile a quello che si sente durante la ricreazione o nei luna park. Urlavamo con accenti diversi, soprattutto messicani, cileni e argentini. L’accento dell’Uruguay era il meno comune e, forse proprio per questo, mi sembrava il più bello. All’imbrunire le madri venivano a chiamarci o ci facevano segno dalla finestra di rientrare. Tornavamo tutti a casa, e a quel punto sui giardini calava un silenzio nero come la notte.

Camilo e io cominciammo a giocare insieme in un periodo precedente a quello che abbraccia la mia memoria. I miei primi ricordi con lui risalgono a quando avevamo circa sei anni. Ci vedo mentre inseguiamo uno scoiattolo all’entrata del parcheggio, tra una risata e l’altra. Che due bambini vicini di casa diventino amici e giochino tutti i giorni può sembrare scontato, ma nel nostro caso non lo era così tanto. Appena arrivati in città, i suoi genitori lo avevano iscritto a una scuola frequentata soprattutto da figli di operai del partito, ma lui era troppo magro, troppo alto, troppo goffo e troppo colto per passare inosservato (la più grande fortuna che puoi avere alle elementari). Inoltre portava gli occhiali e parlava in modo strano. Sarebbe stato contentissimo se i suoi compagni avessero espresso il loro fastidio emarginandolo, piuttosto che picchiarlo tutti i giorni. Ma io non potevo farci niente, così come lui non poteva evitare che, nella mia scuola, una scuola privata Montessori, fossi oggetto di persecuzione per la mia estrema timidezza. Condividevamo la sorte, positiva e negativa, di avere genitori progressisti e assenti. Condividevamo anche l’urgenza di crescere, di avere una vita nostra che immaginavamo libera dalle oppressioni familiari. Due futuri molto diversi, perché mentre io sognavo di pilotare aerei, scalare montagne e viaggiare sui dirigibili, lui parlava unicamente di tornare in Uruguay. Mi domando se quell’ossessione venisse dai suoi genitori, visto che a casa sua, dove trascorrevo tanto tempo quanto lui nella mia, non se ne parlava mai, che io ricordi.

I giardini, come i palazzi, avevano i loro inquilini. Le siepi e i rami degli alberi erano abitati da famiglie intere di lumache, uccelli e gatti randagi. Gli uccelli erano di gran lunga i miei preferiti. Non mi interessava cacciarli con la fionda come facevano gli altri, bensì sedermi a osservarli. Mi piaceva che avessero canti, colori, dimensioni e piumaggi diversissimi, o che alcuni fossero liberi e altri vivessero nelle gabbie dentro gli appartamenti, come i bambini con genitori che non li lasciavano mai scendere in piazza e mescolarsi con gli altri. A dire il vero la maggior parte degli uccelli dei dintorni era costituita da “schifosi piccioni” come li chiamava Camilo, ma c’erano anche passeri e tordi con il becco arancione. Nelle case prevalevano i canarini, i cardellini e i pappagalli domestici. Ogni volta che stavo male e avevo la fortuna di non andare a scuola, ascoltavo gli uccelli dalla mia stanza, stupita dalla portata di quel frastuono che nel pomeriggio coprivamo con le nostre urla.

Ben presto mio padre fece suo l’interesse per gli uccelli, che per molti anni rappresentarono un argomento di cui potevamo sempre parlare. Papà e io inventammo un gioco che consisteva nell’osservare i vicini e individuare il genere di uccello a cui assomigliavano, in base all’aspetto fisico o al comportamento. La signora del pian terreno, la madre di Lalo, era chiaramente una civetta con cinque piccoli nel nido, quella dell’appartamento 305 una pettirossa con i tacchi. Camilo imparò subito e divenne persino più bravo di me nell’identificare gli uccelli che si nascondono dietro le persone.

 

In libreria: Guadalupe Nettel, La vita altrove

Traduzione di Federica Niola, illustrazione in copertina di Alicia Baladan

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