Voci come fili. Scrittrici che narrando riparano vite

Questo articolo di Anna Toscano è apparso per la prima volta su Balthazar (no. 3, gennaio 2022).
Ringraziamo l’autrice e la rivista per averci permesso di pubblicarlo sul nostro blog.

I libri di Nathalie Léger sono narrazioni corali e apparentemente asincrone, danno voce a donne che chiedono giustizia. Questo tipo di scrittura, mescolando vari generi come fiction, auto-fiction, memoir e biografia, crea una relazione narrativa fortissima tra le varie voci. La narrazione è una via per riparare vite intessendo storie. Léger si affianca idealmente al lavoro che Ingrid De Kok e Karen Press da alcuni anni portano avanti in poesia.

I libri di Nathalie Léger sono libri in cui la voce è sopra ogni cosa, le voci, voci che escono dall’autrice, dalla voce narrante, dalle personagge e dai personaggi, dai quadri, dagli arazzi, dalle fotografie, dai ricordi, persino dalla copertina. Non sono narrazioni puramente corali, no, sono asincrone e con direzioni e intenzioni spesso diverse: sono molte voci singole che attraversano un percorso tutto loro, fino a incontrarsi, incrociarsi, riconoscersi, e riconoscere che le strade erano altre ma la domanda era la stessa.

Nell’ultimo libro pubblicato in Italia, L’abito bianco per La Nuova Frontiera tradotto da Tiziana Lo Porto, Nathalie Léger mette in ex-ergo l’invocazione corale di tutto il libro, il nodo in cui tutte le voci si imbattono e si riconoscono: la questione di riparare a una ingiustizia. L’ex-ergo è tratto da un testo dello scrittore ungherese Imre Kertész – «Sono venuto per provare a riparare questa ingiustizia» dice facendosi piccolo piccolo come per giustificarsi. «Riparare?…Come? Con che cosa?» – porta in sé tre domande a cui, diligentemente, Léger risponderà.

Le domande di Kertész, come in un autoscontro per ragazzini, puntano e sbattono ostinatamente su quelle questioni che la scrittrice francese ha “accantonate, senza risposta”, come un oggetto appoggiato in un luogo da così tanto tempo che non lo si nota più: mirano quella domanda appoggiata e dimenticata e le fa fare un balzo, e diviene un interrogativo che cerca voce.

Le domande che cercano voce sono molte e un poco alla volta si fanno sentire: come l’arazzo sotto il quale per anni la protagonista e la madre hanno consumato i pasti, una riproduzione de L’assassinio della dama di Botticelli in cui la donna che viene prima rincorsa, poi viene colpita e le viene strappato il cuore: è raffigurata che grida, grida aiuto. Non la aiuterà nessuno, e di per sé il quadro rappresenta una forma di giustizia in quanto narra di due persone, lui e lei, che nell’inferno devono riapparire ogni venerdì nel medesimo luogo per un numero di anni pari ai mesi in cui lei, la donna, era stata crudele rifiutando lui che per questo si era suicidato: ogni venerdì lui la avrebbe uccisa nuovamente. Di questo poco romantico ed edificante quadretto, giunge il nome di lui, Guido degli Astagni, non di lei. La tavola, composta da quattro pannelli, era un dono di nozze da parte di Lorenzo il Magnifico. La novella di Nastagio degli Onesti nel Decameron di Giovanni Boccaccio, da cui ha tratto ispirazione Botticelli, inquadra ancor meglio la situazione dando una cornice più ampia e per noi in questo contesto molto interessante: l’immagine degli spettri di un innamorato rifiutato e dell’amata, spettri di uomo che squarta e della donna squartata, come leggiamo nei quattro pannelli, fu la causa del cambio di idea di una giovane fanciulla che non amava Nastagio ma si convince ad amarlo vedendo cosa è accaduto alla povera squartata all’inferno.

La poco edificante immagine, vista ai giorni nostri, ritrae pertanto una storia tragica a mo’ di esortazione a non rifiutare l’amore, a non offendere l’uomo innamorato, di non creare ingiustizia verso chi prova amore, di ricambiare per non correre peggiori guai. L’opera che raffigura questa storia era stata commissionata come dono di nozze: una ingiustizia riparata con un monito a tutte le donne a gridare senza voce che tanto il loro cuore andrà in pasto ai cani se non ricambieranno l’amore. Perché di amore parla Léger in questo libro, amore per la vita, amore per dare voce alle storie senza voce.

Questo libro non è esclusivamente il tentativo di ricostruire la storia di Pippa Bacca, come riportato in molti commenti e recensioni, per provare a capire chi fosse e cosa volesse fare, fino a che punto l’arte fosse potenza o follia, come molti dicevano all’epoca, ma sono molte le storie in cerca di ricostruzione, di voce, di giustizia. A partire dalla donna dell’arazzo che prima di venire squartata grida ma non viene udita: la sua bocca è spalancata, le braccia tese in avanti in cerca di aiuto, un leggero drappo bianco copre le nudità, e grida, fino al pannello in cui è riversa supina e lui dalla schiena con una lama la squarta. Poco più in là dei cani, che prima la mordevano, si stanno cibando del suo cuore. Sotto l’arazzo compaiono a tavola la madre e il padre della protagonista, ovvero la vita familiare lite dopo lite, perdono dopo perdono negli anni, decenni. La voce della madre per ora è unicamente un gesto, una sagoma, delle fattezze. La voce della madre è una domanda ancora poggiata su un luogo, ancora silente.

A sospendere questa domanda è la ricerca, la ricerca che la protagonista ha deciso di fare su Pippa Bacca e i suoi due abiti bianchi da sposa: uno rimasto a Milano e uno partito addosso a lei per un viaggio da cui tornerà solo. Qui è la voce di Pippa Bacca che la protagonista cerca di far emergere tra tanta stoffa bianca, ma anche attraverso il tempo trascorso e le innumerevoli e spesso biasimanti parole che in questo tempo sono state versate su Pippa e sulla sua arte, fino quasi al silenzio. La voce di Bacca inizia a faticare a farsi sentire – quella voce che non chiede una giustizia intesa in senso classico, chiede la giustizia di avere finalmente volume, di continuare a esistere – in quanto talora soverchiata dalla voce della madre che pretende ascolto: «Alla fine della sua vita, mia madre ha voluto liberarsi di ogni dubbio. Era stata vittima di un’ingiustizia, o lei stessa era responsabile della propria sventura?». È la domanda che si farà cercando di gridare la donna raffigurata da Botticelli, è la domanda che si pone la protagonista sulla vicenda di Pippa Bacca, è la domanda della madre, è la sua stessa domanda. È la domanda alla quale ne segue un’altra, ed è quella di Kertész: «Riparare?…Come? Con che cosa?».

La risposta è in questo libro: dando voce alle storie. Quello che fa Léger è una tessitura di storie, storie accumunate da una richiesta, di riparare, e da un abito bianco, quell’abito bianco di molte performance, tra cui quella di Pippa Bacca, quello della madre, quello della donna raffigurata da Botticelli; abito bianco che diviene filo per tessere figure di donne e intrecciarle. Dove l’empatia si fa così forte fino a far stare in bilico sul filo dell’identità altrui, dove anche una donna che scappa in un arazzo colpisce chi la guarda, una madre incide sulla figlia e i rituali di Pippa Bacca e di altre artiste piegano il pensiero fino a stornarlo dal pensiero comune, allargandolo: «Un uomo e una donna partono a piedi da punti opposti della muraglia cinese e quando si incontrano, dopo tre giorni di cammino in solitario, piangono, si abbracciano, si dicono addio e proseguono per la loro strada. Ognuno di questi gesti, ho detto a mia madre, mi sembra sia stata io a farlo, a metterlo insieme, sono certa sia la storia della mia vita – o piuttosto della mia, dice lei chiudendo il fascicolo». Quattro parole della madre- “o piuttosto della mia” – per far esplodere tutte le performance raccontate nel libro, quelle di Bacca comprese, come escamotage per dare voce al ricordo di molte, come detonatore di una voce messa là in un angolo a tacere; per narrare come certa arte contemporanea performativa non solo dia voce ma anche strappi voci dal silenzio.

La narrazione prosegue per frammenti di vite, voci che cercano di farsi udire, che incalzano, che cercano di uscire da una umiliazione: come? Con che cosa? Attraverso la parola che ricuce le storie personali e l’ago e il filo, che tiene così abilmente Léger, cuce insieme diversi destini con lo stesso rocchetto. Scampoli di vite, si potrebbe dire, vengono raccontati in questo libro, scampoli bianchi con filo bianco, non vite intere, ma quelle parti che hanno subito umiliazione e chiedono giustizia, la voce e le parole. Quei frammenti, quegli scampoli, sono invero i più dolorosi, i più feroci, così vivi che il faldone che contiene i documenti dell’ingiustizia subita dalla madre «è poggiato sul tavolo come un vecchio fegato»: il ricordo senza giustizia rimane una parte del corpo pulsante, non si acquieta, spera solo di non incontrare del sale ma talvolta ci va proprio incontro. Forse Léger vedeva anche il materiale raccolto su Pippa Bacca come un vecchio fegato, senza parole che lo ricostruissero. Proprio per l’ingiustizia che portano, la narrazione di Léger è talvolta sfocata, indefinita, per attutire non tanto la portata di dolore quanto la forza trascinante che l’empatia produce: “o piuttosto della mia”.

Ricostruire vite dando loro voce è il lavoro che fa Léger in questo libro, come anche nel precedente, Suite per Barbara Loden: come se cercasse di scorgere e riportare che disegno ci sarà in queste vite una volta che il disegno della loro vita sarà completo. In un romanzo di Karen Blixen (La mia Africa, Feltrinelli, Milano, 1996) la cicogna è il disegno che formano le orme dell’uomo uscito nella neve attratto da un gran rumore che arrivava dallo stagno; nel testo di Léger probabilmente è uno lembo di abito bianco quel disegno, per tutte loro. Un brandello di abito che le tiene insieme, in modo che la narrazione sia efficace contro il disperdimento di sé, che possa qualcosa contro il tempo che cancella la memoria e i faldoni che la confondono. La voce che narra di sé o fa narrare di sé è quella che cerca di ricostituire una propria identità smarrita nel frastagliamento di una vicenda coniugale. O quella di una identità messa sotto la lente di ingrandimento del cinismo sociale, dove un’artista è solo una “simpatica bislacca” (L’abito bianco, p. 11) e nel momento in cui non torna dalla sua performance è una folle.

In questo libro che non è un romanzo, non è un racconto, non è un saggio e nemmeno un memoir, ciò che lo contraddistingue è non solo l’autonarrazione ma principalmente il desiderio di dare spazio alle storie di chi non ha ancora avuto voce, creando così una relazione narrativa fortissima tra le personagge. In questo libro Léger riferisce la vita di altre donne, riportando anche narrazioni di altre donne sulle stesse. Presenta la storia dell’arazzo che si intreccia con la sua storia familiare, la storia di Pippa Bacca e le narrazioni che altri fanno sulla storia di Bacca, la storia della madre, con gli inserti in cui sua madre stessa ne parla e i documenti testimoniano, come la madre narra della figlia. Le biografie che vengono raccontate, seppur con una messa a fuoco talvolta non nitida, incidono una relazione fortissima tra tutte le donne. La narrazione dunque sfugge a ogni genere in quanto punta non tanto ad aderire a un canone quanto a costruire narrativamente una relazione tra le voci che si susseguono tra le pagine. Narrare come dare spazio, lo spazio che tolga il silenzio o i faldoni che pesano su una identità che vuole dirsi, ricomporsi: è il caso della madre soprattutto, legata a un desiderio esplicito per bocca di altri, in questo caso la figlia, “una totale e irresiduale”, come scrive Adriana Cavarero (Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano, 2011), “esposizione di sé alla propria storia”, e prosegue “il sé narrabile si costituisce pienamente solo nel racconto della sua storia, ossia nel disegno di una vita che solo il racconto raffigura”.

La questione di Michel Foucault “della parentela della scrittura con la morte” ovvero “il rapporto che il linguaggio intrattiene con la morte”(Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1984) viene rappresentato principalmente con la figura della madre che cerca di allungare l’ultimo tratto di vita con il rendiconto degli eventi, per trovarvi il filo che ricucia i vari brandelli della sua identità, è come si chiedesse “Chi sono io?”, quella che io conosco o ciò che questo faldone infamante sostiene: «Mia madre dice che è arrivato il momento. La fine di una vita è grande come un fazzoletto da taschino, si va a sbattere a tutte le estremità, dice» (L’abito bianco, p. 12). La stessa domanda la protagonista si pone su Pippa Bacca “Chi è lei?”, tra le tante e disparate descrizioni che ne sono state fatte. Allontanare la morte è allontanare l’oblio, l’operazione è similare.

La maestria di ricucire storie, la capacità di imbastire insieme stralci di biografie di donne apparentemente distanti, costruire narrativamente una relazione tra le personagge, Léger la aveva già espressa nel precedente libro pubblicato in Italia, Suite per Barbara Loden, tradotto da Tiziana Lo Porto per La Nuova Frontiera. Qui il susseguirsi di voci che pretendono e prendono parola è molto più consequenziale: Barbara Loden, attrice e regista che nel 1970 decide di dirigere e interpretare Wanda, un’altra donna con la sua storia tratta dalla cronaca. La ricerca di Léger su Barbara Loden che narra la ricerca di Barbara su Wanda che diviene quasi identificazione. Oltre a queste voci, tra le altre, vi sono anche quelle di Marguerite Duras, che del film Wanda e di Barbara Loden aveva detto e scritto, e della madre che spazza e spazza il filo con il suo: «Qual è la storia? Mi ha chiesto mia madre.» (Suite per Barbara Loden, p. 11).

Anche questo libro mescola vari generi, come fiction, auto-fiction e biografia per raccontare: “Avevo l’impressione di gestire un cantiere enorme da cui avrei estratto una miniatura della modernità ridotta alla sua più semplice complessità. Una donna racconta la propria storia attraverso quella di un’altra”. Anche qui, le biografie che vengono narrate incidono una relazione fortissima tra tutte le donne. La storia costruisce narrativamente una relazione tra le voci che si susseguono nelle pagine dando luogo, pure qui, a un narrare come dare spazio, lo spazio che tolga il silenzio o i faldoni che pesano su una identità che vuole dirsi, ricomporsi. Un uso della scrittura che ricorda la poesia Sulla panchina del parco di Grace Paley (Fedeltà, minimum fax, Roma 2011):

lei racconta la storia a un’altra donna

la donna ascolta la racconta di nuovo

la donna smette di ascoltare c’è un’altra

donna lei le racconta la storia la racconta

di nuovo la donna se ne va perché l’ha

fatto? La storia è interessante ma va

ascoltata tre o quattro volte ora

cosa farà? cammina pensa di andarsene a casa

cammina è stanca si siede

su una panchina sotto il vecchio olmo

c’è una donna in attesa

Il tipo di scrittura di Léger evidenzia una pratica che in questi anni corre tra le storie e nei libri. Soprattutto in poesia, basti pensare a Karen Press, autrice sudafricana, e alla sua poesia che raccoglie storie da un mondo lontano, le storie delle madri, delle antenate, delle donne che gliele raccontano, le tiene insieme pure lei con l’ago e il filo, le imbastisce su tele di parole che divengono versi. Le radici, la tradizione da raggranellare e amalgamare al presente e da disporre per il futuro è il lavoro poetico di Press che con lanternino e scalpello scava nei ricordi di molte. La poeta ha tasche per raccogliere le pietre del passato così da ancorarsi a una storia, la sua storia e la storia del mondo: “Frammenti del passato / mi finiscono nelle tasche / luminosi come gli occhi dei cani randagi, / imploranti e feroci. / Per simpatia il presente si spacca in mille pezzi / e ci s’infila dentro”. La sua poesia, nell’unico libro tradotto in Italia – Pietre per le mie tasche, uscito per Donzelli – narra di una sofferenza muta di milioni di persone che vivono in un paese dai grandi contrasti, il suo attivismo la porta non a scrivere poesie direttamente politiche ma a comporre versi che parlino dell’essere umano all’essere umano, di una identità che la sabbia e le macerie e la avidità umana cercano di smussare. Raccontare storie via via che le madri scompaiono lasciando sole le figlie, riconoscersi in una genealogia femminile: “Io raccolgo le tue storie, /pietre per le mie tasche/ per ancorarmi a terra / quando la radice cede”. La strada che percorre con la sua lirica è quella dell’empatia, unico modo per raggiungere gli altri e farsi raggiungere attraverso la parola poetica in un mondo che è confinato nella sofferenza del “tuo cuore”. O detto dalla madre personaggia de L’abito bianco: “o piuttosto della mia”.

Un lavoro molto simile, di raccolta di testimonianze e di voci in poesia è quello della sudafricana Ingrid De Kok (Mappe del corpo, a cura di Paola Splendore, Donzelli, Roma 2008): scrive poesie che sono una sutura tra l’esperienza e il mondo, testi che mettono a fuoco alcuni grandi fatti tragici della storia ed eventi privati per ricostruire un senso alla vita. “Ci dicono che un’infanzia di ferite / è cosa certa. Sia che il volto di tua madre /fosse una stella, una maschera, un palloncino gonfiato / o rispecchiasse il tuo volto immobile: / ferite, ferite. E non solo le madri. / qualcuno o qualcosa di tremendo ci cambia […]”: è la poesia della sopravvivenza nonostante tutto, delle ferite come cicatrici dell’anima esposte fino alla superficie in quanto parte di un puzzle che è l’identità. Non tutte le ferite si possono mettere in parole, non hanno un filo per venir rammendate ma solo un cordino grigio per tenerle strette, “Ci sono storie che non vogliono essere narrate. / Se ne vanno, portandosi valigie / tenute insieme da un cordino grigio”. La poeta qui è una chirurga, ricuce la stoffa dell’umano quando l’esperienza lacera il cuore, la poesia è una sutura, assembla ciò che è lacerato.

Léger si muove in questa stessa direzione: trova quelle storie che non vorrebbero essere narrate ma vanno in giro con valige tenute insieme da un cordino grigio e le apre, con la giusta distanza, infila l’ago, le ascolta e le ricuce. Léger incede nel ricordo suo e degli altri e nel ricordo degli altri, e guarda le orme dei passi delle donne di cui narra, per raccontare anche quell’immagine, che con molta probabilità è uno scampolo di tessuto bianco.

 

Balthazar, 2, 2021

DOI: 10.54103/balthazar/16840

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