Una voce argentina. Sull’universo di Juan José Saer

In occasione dell’anniversario della nascita, pubblichiamo un articolo di Luciano Funetta sull’universo di Juan José Saer.

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Detesto il pubblico. Odio il pubblico. […] Il pubblico è un ricatto, una truffa organizzata da coloro che dicono di scrivere per il grande pubblico.

Così parlava Saer, in un’intervista che lo perseguiterà per sempre. Ovunque andasse gli veniva chiesto di spiegarsi, che per uno scrittore come lui significava scusarsi o, ancora peggio, scendere a patti con le proprie parole. Per questo Saer si ritroverà spesso a dover chiarire che il suo odio non era rivolto ai lettori, ma alla nozione di pubblico, all’idea di pubblico come “ultima istanza critica nel regno della quantità”.

Saer visse, da scrittore, gli anni del Boom latinoamericano, di cui tuttavia rigettò sempre le suggestioni e gli stilemi, scegliendo una strada diversa e solitaria. Si può dire che, sin dal suo primo testo pubblicato nel 1960, En la Zona, e per tutto il vasto, complesso arco della sua produzione, Saer non sia stato altro che Saer, e in un momento in cui l’intero continente latinoamericano veniva identificato con le lussureggianti opere di Garcia Márquez, Cortázar e Fuentes, essere Saer comportava un pressoché unanime isolamento critico, quando non addirittura una sorda indifferenza. Per anni la cosiddetta “Zona Saer” è stata relegata fuori dal canone latinoamericano. E lo stesso Saer, in fondo, trovava indigesta l’idea di un canone territoriale.

La condizione marginale, per Saer, è anche una questione biografica. Nasce a Serodino, nella Provincia di Santa Fe, da immigrati siriani; a Santa Fe – cinquecento chilometri da Buenos Aires – trascorre i primi trent’anni della sua vita, dividendosi tra il lavoro di giornalista e il ruolo di insegnante di Storia ed Estetica del cinema. Nel 1968, grazie a una borsa di studio dell’Alliance Française, viaggia verso Parigi per trascorrervi alcune settimane. Resterà in Francia fino alla morte. In Europa avrà modo di verificare le sue teorie sulla ricezione e sulla semplificazione della letteratura latinoamericana da parte dei critici e del lettori d’oltreoceano, imputandola a una sorta di paternalismo colonialista.

Se l’opera di uno scrittore non coincide con l’immagine latinoamericana che un lettore europeo si è fatto, questa difformità stabilisce che quello scrittore è un impostore.

Questa affermazione è tanto perentoria quanto utile a capire in che modo per i successivi trentacinque anni Saer abbia costruito il suo universo letterario aspro e apertamente inconciliabile con ciò che chiunque si sarebbe aspettato dall’opera narrativa di un argentino.

Per queste e altre ragioni, la letteratura di Saer è stata e resta unica, progettata, negli anni, come un irregolare insieme di frammenti e di storie ambientati in luoghi ed epoche diverse e collegati tra loro dal fantasma di un’indagine. Partendo dal rifiuto del reale come forma assoggettabile a una narrazione lineare e dal presupposto della sua indecifrabilità senza appello, mette in atto il suo personale metodo di ricognizione: paziente e ostinato tesse, intorno al vuoto, una vertigine linguistica e prospettica. I personaggi sono quasi sempre individui comuni che a un certo punto della vita sembrano smarrire la certezza e la consolazione del loro ruolo nella porzione di realtà che gli è toccata in sorte. Il tempo si dilata, lo sguardo indugia su dettagli all’apparenza irrilevanti, conversazioni quotidiane si trasformano in enigmi filosofici, filologici, polizieschi.

Da grande esperto di cinema qual era, Saer sa bene che un’inquadratura totalmente sottomessa alle ragioni della narrazione è uno spreco. Non gli interessa raccontare la linea, ma esplorare le numerose direzioni che tracciano “il ritratto immaginario di un terrore immobile”, per citare il meraviglioso esergo di Cicatrici. Ne consegue che ogni libro di Saer è un’esperienza da cui non si esce facilmente. Non una letteratura da divorare, ma in cui dissolversi a poco a poco: non una storia di cui non si vede l’ora di scoprire l’epilogo, ma una spirale senza inizio né fine, in cui vagare e perdersi, “una specie di automa azionato da un meccanismo interno molto complesso, i cui rari gesti esteriori, lenti e ripetitivi, non riescono a dare un’idea dei molteplici ingranaggi nascosti che li consentono”.

I saeriani clandestini possono essere felici e guardare al futuro con entusiasmo: altri capolavori arriveranno.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su Robinson-La Repubblica del 20 marzo 2021

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