La parola alla traduttrice: “Forza, Catriel, che è polka”

La parola a Giulia Di Filippo, che ci ha raccontato come è stato tradurre Un giorno qualunque di Hebe Uhart.

 

 

C’è chi dice che l’anno inizi a gennaio, chi a settembre; e, ancora, chi crede che dicembre sia il mese per tirare le somme. Per me, questo inizio anno è un po’ più speciale del solito, e dunque mi concedo il lusso di fare un bilancio con una manciata di giorni di ritardo.

Senza dubbio il periodo con Hebe è stato il più intenso. Sia perché avevo a che fare con “la più grande scrittrice argentina” – l’ha detto Fogwill, c’è da fidarsi – sia perché eravamo in perfetta sintonia: non era solo la mia voce a seguire la sua, ma erano le mie stesse giornate ad assomigliare in maniera spaventosa, e non esagero, a quelle delle sue protagoniste.

L’identificazione è stata immediata e le sue alter ego – Catalina, Irma, Genoveva, Doña Herminia e soprattutto le altre a cui non ha voluto dare nomi – sono finite per diventare anche un po’ mie, anche un po’ me. Se per Hebe scrivere significa sdoppiarsi, essere la persona che scrive e allo stesso tempo il personaggio di cui scrive, tradurla significa viaggiare su un binario doppio, ma sovrapponibile.

Esiste un libro, intitolato Las clases de Hebe Uhart e curato da Liliana Villanueva, che ha partecipato per più di dieci anni alle sue lezioni di scrittura, in cui la stessa Hebe rivela per esempio di aver venduto un piatto ereditato da sua madre a uno zingaro. E nel racconto “Cara mamma” si legge: “Dei servizi da tè non ne rimane nessuno; quello cinese l’ho dovuto vendere un’estate per pagare le bollette. Una volta ho venduto un piatto di porcellana a uno zingaro”. Questo per dire che nei suoi racconti Hebe tocca i fili di una quotidianità comune e intima trasformandoli in musica, la realtà più trascurabile diventa la più lucente e straordinaria.

Durante la traduzione – in questo continuo sovrapporsi, in questo gioco di rimandi – ho cominciato a sentirmi anche io un personaggio di Hebe, proprio come la protagonista di “Poca immaginazione”:

Ma l’anno dopo cominciai a leggere Dostoevskij e Kierkegaard. Più che circondarmi dei personaggi di Dostoevskij, ero diventata io stessa un suo personaggio. Non camminavo più alla cieca, andavo in giro per il mondo in cerca di una destinazione, di un destino. E, quando imboccavo una strada per andare da qualche parte, era come se scegliessi letteralmente una rotta, ero una protagonista di Aut-Aut di Kierkegaard. Ero sempre in compagnia delle mie idee.

E, come le protagoniste di “Un viaggio a Bahía” e “L’escursione in alta montagna”, il 2022 è stato l’anno in cui ho cominciato a viaggiare da sola; in cui, come la protagonista di “Guidando l’edera”, ho imparato a sentirmi a mio agio nella solitudine; in cui, come la protagonista de “La torta”, non ho imparato a cucinare; in cui, come la protagonista di “Un giorno qualunque”, ho scelto di fare mio il ritornello “Forza, Catriel, che è polka”, ormai formula salvifica di tutti i miei momenti no.

In definitiva, direi che il bilancio è positivo. Che sia un 2023 pieno di giorni trascurabili e luminosi.

Mi sveglio e sento di essere viva, è l’alba. […] Passa un aereo lontanissimo e all’improvviso, mentre sistemo, vengo colta da una felicità e una pace così grandi che comincio a lavorare con più calma perché quel momento non finisca. Mi piacerebbe che arrivasse qualcuno e mi trovasse così, al mattino. Ma sono tutti occupati in altri lavori, o forse soffrono, si lamentano o hanno la febbre; sono cose che succedono e prima o poi proveranno una felicità come la mia. Mi sento così umile e allo stesso tempo lieta che vorrei ringraziare qualcuno, ma non saprei chi. Guardo il mio giardino e ho fame, mi merito una pesca. Accendo la radio e sento che parlano dell’oncia troy; non so cosa sia né mi importa: forza, vita meravigliosa.

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