Fosso della strillona

In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne pubblichiamo il racconto “Fosso della strillona” tratto da Piccoli miracoli di Sandra Cisneros. La traduzione è di Riccardo Duranti.

 

Il giorno che Don Serafín diede a Juan Pedro Martínez Sánchez il permesso di portare Cleófilas Enriqueta DeLeón Hernández, quale sua legittima sposa, oltre la soglia della casa paterna, oltre parecchi chilometri di strade sterrate e altrettanti di strade asfaltate, al di là d’un confine e oltre, fino a una città en el otro lado – dall’altra parte – aveva già previsto il giorno in cui la figlia si sarebbe portata una mano sugli occhi, avrebbe guardato verso sud e avrebbe sognato di tornare alle infinite faccende, ai sei fratelli buoni-a-nulla e ai lamenti di un anziano.

Dopotutto, nel trambusto della partenza, glielo aveva detto: Sono tuo padre, non ti abbandonerò mai. Glielo aveva detto davvero, no? Quando l’aveva abbracciata e poi lasciata andare. Ma in quel momento Cleófilas era impegnata a cercare Chela, la damigella d’onore, per portare a termine il loro piano segreto sul bouquet. Non si sarebbe ricordata le parole del padre se non più tardi. Sono tuo padre, non ti abbandonerò mai.

Solo ora che era madre le erano tornate in mente. Ora che lei e Juan Pedrito se ne stavano seduti sulla sponda del fosso. Che quando un uomo e una donna si amano, a volte quell’amore può andare a male. Ma l’amore di un genitore per un figlio e quello di un figlio per i genitori sono tutta un’altra cosa.

Così pensava Cleófilas le sere in cui Juan Pedro non tornava a casa e lei se ne stava distesa dalla sua parte del letto ad ascoltare il rombo sordo dell’autostrada, i latrati di un cane lontano, gli alberi di pecan che frusciavano come dame in crinoline – shh-shh-shh, shh-shh-shh – e la cullavano fino al sonno.

Nella città in cui era cresciuta non c’è molto da fare oltre ad accompagnare zie e madrine ora a casa di una, ora a casa d’un’altra, a giocare a carte. Oppure andare al cinema a rivedere il film della settimana, pieno di chiazze e con un pelo che vibra sullo schermo in maniera fastidiosa. Oppure andare in centro a ordinare un frullato che un giorno e mezzo dopo le apparirà sul fondoschiena sotto forma di brufolo. Oppure a casa di un’amica per assistere all’ultima puntata di una telenovela e cercare di copiare le pettinature e il trucco delle attrici. Ma la cosa che Cleófilas ha aspettato tanto tempo, per cui ha bisbigliato, sospirato e ridacchiato a lungo, che ha anticipato da quando era stata abbastanza grande da affacciarsi alle vetrine piene di garze, farfalle e merletti, è la passione. Non del tipo illustrato sulle copertine di ¡Alarma!, si badi bene, dove l’amante viene fotografata che ancora brandisce la forcina insanguinata con cui ha fatto strazio del suo buon nome. Ma la passione nella sua essenza più pura e cristallina. Il tipo di passione che i libri, le canzoni e le telenovelas descrivono quando qualcuno trova finalmente il grande amore della propria vita e per quello fa tutto quello che può e che deve, costi quel che costi.

Tú o Nadie. “O te o nessuno”. È il titolo dell’ultima telenovela preferita. La bellissima Lucía Méndez che deve sopportare ogni sorta di pena d’amore, tradimenti, separazioni, ma ama sempre, ama ad ogni costo, perché è quella la cosa che conta, l’hai vista Lucía Méndez negli spot dell’Aspirina Bayer – non era deliziosa? Secondo te se li tinge i capelli? Cleófilas va in farmacia a comprare la tintura; la sua amica Chela l’aiuterà ad applicarla – non è mica difficile.

Perché non hai visto la puntata di ieri sera quando Lucía gli ha confessato di amarlo più di chiunque altro in vita sua. In vita sua! E poi canta “O te o nessuno” all’inizio e alla fine della puntata. Tú o Nadie. Dobbiamo proprio cercare di vivere così, non ti pare? O te o nessuno. Perché soffrire per amore è bello. Il dolore, in un certo senso, è dolce. Alla fin fine.

Seguín. Il nome le era piaciuto. Bello e lontano. Non come Monclova. Coahuila. Brutti nomi.

Seguín, Tejas. Aveva un bel nome dal suono argentino. Il tintinnio dei soldi. Avrebbe potuto indossare vestiti come quelli delle attrici televisive, come Lucía Méndez. E avere una gran bella casa, da far ingelosire Chela.

E sì, andranno in macchina fino a Laredo per comprare il vestito da sposa. Almeno così dicono. Perché Juan Pedro vuole sposarsi subito, senza aspettare un lungo fidanzamento perché non può mica prendersi tante ferie. Ha un posto importante a Seguin in una, una… fabbrica di birra, mi pare. O di pneumatici? Già, deve tornare al lavoro. Perciò si sposeranno a primavera, quando potrà prendersi le ferie, e partiranno a bordo del suo camioncino nuovo – l’hai visto? – verso la casa nuova di Seguin. Be’, tanto nuova non è, ma hanno intenzione di ridipingerla. Sai come sono fatti gli sposini. Tinte nuove, mobili nuovi. Perché no? Lui può permetterselo. E magari più in là aggiungere una o due stanze per i bambini. Che gliene vengano tanti, come benedizioni.

Be’, vedrai. Cleófilas è sempre stata brava con la macchina da cucire. Un po’ di rrr, rrr, rrr della macchina e ¡zas! Miracoli. È sempre stata una ragazza in gamba. Poverina. Anche senza avere una mamma che le dia dei consigli sulla prima notte di nozze. Be’, che Dio l’assista. Con quella testa di somaro di padre che si ritrova e quei sei fratelli imbranati. Be’, che dici? Certo che ci vado, al matrimonio. È ovvio! Il vestito che vorrei mettermi deve essere solo appena appena ritoccato per renderlo alla moda. Capisci, solo ieri sera ho visto un nuovo taglio che secondo me mi sta bene. Hai visto l’ultima puntata di Anche i ricchi piangono? Be’, hai fatto caso al vestito che portava la madre?

La Gritona. Un nome così buffo per un arroyo così bello. Ma quello era il nome che avevano dato al fosso che scorreva dietro casa. Anche se nessuno sapeva dire se la donna strillava per rabbia o per dolore. Le persone nate lì sapevano solo che l’arroyo che si doveva attraversare per andare a San Antonio e, di nuovo, sulla strada del ritorno, era chiamato Fosso della Strillona, un nome che nessuno da queste parti contestava né, tanto meno, capiva. Pues, allá de los indios, quién sabe – chi lo sa, dicevano i paesani, alzando le spalle, perché non era certo una delle preoccupazioni della loro vita come mai questo filo d’acqua aveva preso un nome tanto curioso.

«Perché lo vuole sapere?» le aveva chiesto Trini, l’addetta della lavanderia automatica nello stesso spagnolo burbero che usava sempre quando le dava il resto o la rimproverava per qualche motivo. Prima perché metteva troppo detersivo nelle macchine. Poi, perché si era seduta su una lavatrice. E ancora, dopo che era nato Juan Pedrito, per non aver capito che in questo paese non si può lasciare un bambino andare in giro senza pannolino e con il pipino di fuori, non era bello, ¿entiendes? Pues.

Come faceva Cleófilas a spiegare a una donna del genere come mai la storia della Strillona l’affascinava tanto. Be’, era proprio inutile parlarne con Trini.

Dall’altra parte c’erano le vicine, le case ai due lati della sua, presa in affitto vicino all’arroyo. A sinistra c’era Soledad, a destra, Dolores.

Alla signora Soledad, la vicina, piaceva definirsi una vedova, anche se come lo era diventata rimaneva un mistero. Il marito era o morto o scappato con una sciacquetta incontrata alla taverna, oppure era uscito un pomeriggio a comprare le sigarette e non era più tornato. Difficile sapere cosa era successo perché di norma Soledad non ne parlava mai.

Nell’altra casa abitava la señora Dolores, gentile, tanto dolce, ma casa sua odorava troppo d’incenso e di candele accese sugli altarini in ricordo di due figli che erano morti nell’ultima guerra e un marito che era morto di crepacuore poco tempo dopo. La vicina Dolores divideva il suo tempo tra il ricordo di questi uomini e il giardino, famoso per i girasoli – così alti che dovevano essere puntellati con manici di scopa e vecchie tavole; per le creste di gallo d’un rosso acceso, sfrangiate e stillanti un denso colore mestruale; e specialmente per le rose la cui triste fragranza a Cleófilas faceva sempre venire in mente i morti. Ogni domenica, la señora Dolores tagliava i migliori esemplari di questi fiori e li disponeva su tre modeste lapidi del cimitero di Seguin.

Le vicine, Soledad e Dolores, forse una volta conoscevano il nome dell’arroyo prima che venisse tradotto, ma ora non lo sapevano più. Erano troppo occupate a ricordare gli uomini che se n’erano andati per scelta o per le circostanze e non sarebbero più tornati.

Dolore o rabbia? si chiese Cleófilas passando sopra al ponte la prima volta, sposina novella, e Juan Pedro glielo aveva indicato. La Gritona, aveva detto lui e lei era scoppiata a ridere. Un nome così buffo per un fosso così carino e traboccante di vissero felici e contenti.

La prima volta era rimasta così sorpresa che non aveva neanche strillato, né tentato di difendersi. Si era sempre detta che se un uomo, qualsiasi uomo, l’avesse colpita, lei avrebbe risposto colpo su colpo.

Ma quando il momento arrivò e lui le diede uno schiaffo e poi un altro e poi un altro fino a che il labbro non le si spaccò e produsse un’orchidea di sangue, lei non si ribellò, non scoppiò a piangere, non scappò via come aveva immaginato avrebbe fatto quando vedeva scene del genere in una telenovela.

A casa sua, i genitori non avevano mai alzato le mani né tra di loro né contro i bambini. Anche se era pronta ad ammettere di essere stata educata in maniera un po’ indulgente in quanto unica figlia femmina – la consentida, la principessa – c’erano cose che non avrebbe mai tollerato. Mai.

Invece, quando accadde la prima volta, dopo che erano da poco marito e moglie, fu così sbalordita che rimase senza parole, immobile, attonita. Non aveva fatto altro che portare la mano al calore che sentiva in bocca e fissare il sangue che la macchiava come se neanche a quel punto avesse capito cosa era successo.

Non le veniva in mente niente da dire e così non disse niente. Si limitò a carezzare i riccioli scuri dell’uomo che piangeva come un bambino, lacrime di pentimento e di vergogna, quella e ogni altra volta.

Gli uomini giù alla taverna. Per quel che ne sa lei, dalle volte in cui, nel primo anno, quando ancora sposina novella veniva invitata e accompagnava il marito, sedeva muta accanto alle loro conversazioni, aspettava sorseggiando una birra fino a che non s’intiepidiva, annodava le salviettine di carta o ci faceva ventagli oppure rose, annuiva, sorrideva, sbadigliava, faceva smorfie educate, rideva nei momenti giusti, s’appoggiava al braccio del marito, lo tirava per il gomito e finalmente imparava a prevedere dove le chiacchiere sarebbero andate a parare, insomma da tutto questo Cleófilas ha tratto la conclusione che ognuno di loro tutte le sere cerca di trovare la verità nascosta in fondo alla bottiglia come un doblone d’oro sul fondo del mare.

Vogliono dirsi tra loro quello che si dicono da soli. Ma quello che gli rimbalza come un palloncino contro il soffitto del cervello non riesce mai a uscir fuori. Si gonfia, sale, gorgoglia nella gola, rotola sulla superficie della lingua ed erompe infine dalle labbra – sotto forma di rutto.

Se sono fortunati, alla fine della lunga serata ci scappa qualche lacrima. Da un momento all’altro cercano di parlare con i pugni. Sono cani che s’inseguono la coda prima di mettersi giù a dormire, cercando di trovare una strada, un percorso, uno sfogo e – alla fin fine – trovare pace.

Qualche volta al mattino, prima che lui apra gli occhi. O dopo aver finito di fare l’amore. Oppure qualche volta quando siede semplicemente dall’altra parte del tavolo e si mette il cibo in bocca e lo mastica. Allora Cleófilas pensa: ecco l’uomo che ho atteso tutta la vita.

Non che non sia un brav’uomo. Però deve ricordare a se stessa perché gli vuole bene quando cambia i pannolini al bambino o quando lava il pavimento del bagno o cerca di fare tende da appendere alle porte senza porta, oppure quando smacchia la biancheria. Se lo domanda un po’ anche quando lui prende a calci il frigorifero e dice di odiare questa casa di merda e vuole uscire fuori dove il pianto del bambino e le sue domande malfidate non gli romperanno l’anima insieme a tutte quelle richieste di aggiustare questo e quello e quell’altro perché se avesse un po’ di cervello nella zucca si renderebbe conto che lui è in piedi da prima del canto del gallo a guadagnarsi la vita per pagare il cibo di cui lei si rimpinza e il tetto che ha sulla testa e si dovrà svegliare presto anche il giorno dopo e allora perché non mi lasci un po’ in pace, donna.

Tanto alto non è, no, e non ha certo l’aspetto degli uomini che popolano le telenovelas. Sulla faccia ha ancora i segni dell’acne. E poi ha un po’ di pancetta per via di tutta la birra che beve. Be’, è sempre stato un po’ robusto.

Quest’uomo che scoreggia, rutta e russa oltre che ridere, baciarla e abbracciarla. In un certo senso quest’uomo di cui trova tutte le mattine i peli della barba nel lavabo, le cui scarpe deve mettere a prendere aria tutte le sere sotto la veranda, questo marito che si taglia le unghie in pubblico, ride sonoramente, bestemmia come un turco e pretende che ogni portata della cena sia servita su un piatto pulito come da sua madre, appena torna a casa sia in orario che in ritardo e a cui non gliene frega niente della musica e delle telenovelas né del romanticismo, né delle rose né della luna che fluttua perlacea sopra l’arroyo e neanche attraverso la finestra della camera da letto, chiudi gli scuri e torna a dormire, insomma quest’uomo, questo padre, questo rivale, questo guardiano, questo signore, questo padrone, questo marito nei secoli dei secoli.

Un dubbio. Sottile come un capello. Una tazza lavata rimessa sulla mensola alla rovescia. Il suo rossetto, il borotalco e la spazzola per i capelli sistemati diversamente nel bagno.

No. È solo la sua immaginazione. La casa è sempre la stessa. Non è nulla.

Quando è tornata a casa dall’ospedale con il bambino appena nato, con il marito. È stato confortante scoprire le sue pantofole sotto al letto, la vestaglia scolorita dove l’aveva lasciata sul gancetto in bagno. Il suo cuscino. Il loro letto.

Un dolce, dolcissimo ritorno a casa. Dolce come l’odore di cipria nell’aria, al gelsomino, al liquore appiccicoso.

Un’impronta cancellata sulla porta. Una cicca schiacciata in un bicchiere. Una piegolina nel cervello che pian piano diventa una grinza permanente.

Certe volte pensa alla casa di suo padre. Ma come fa a tornare là? Che vergogna. Cosa direbbero i vicini? Tornare a casa in quel modo, con un bambino in braccio e un altro in arrivo. E tuo marito dov’è?

La città dei pettegolezzi. La città della polvere e della disperazione. La città che ha cambiato per quest’altra, piena di pettegolezzi. Piena di polvere e di disperazione. Magari le case hanno più spazio intorno, ma questo non vuol dire che ci sia più intimità. Non c’è uno zócalo frondoso, ma il brusio delle chiacchiere si sente benissimo lo stesso. Non ci sono i capannelli che bisbigliano sui gradini della chiesa tutte le domeniche. Ma solo perché qui i bisbigli cominciano al tramonto giù alla taverna.

Questa città che va scioccamente fiera di un albero di pecan di bronzo grande come una carrozzina davanti al municipio. Negozi di riparazione tv, una drogheria, un ferramenta, un lavaggio a secco, un chiropratico, uno spaccio di liquori, un ufficio garanzie su cauzione, un negozio vuoto e niente, niente, niente d’interessante. Niente cui si possa arrivare a piedi, in ogni modo. Perché qui le città sono costruite in modo da dover dipendere dai mariti. Altrimenti si resta a casa. Oppure si va in macchina. Ma solo se si è abbastanza ricche da avere la propria macchina e di avere il permesso di guidarla.

Non c’è nessun posto dove andare. Eccezion fatta per le signore vicine. Soledad da una parte, Dolores dall’altra. Oppure giù al fosso.

Non andare laggiù col buio, mi’jita. Non ti allontanare dalla casa. No es bueno para la salud. Mala suerte. Sfortuna. Mal aire. Ti buscherai un malanno e anche il bambino. Ti prenderai uno spavento a girare al buio e allora te ne accorgerai di quanto avevamo ragione.

Il fosso a volte era solo una pozzanghera d’estate, anche se ora, a primavera, per via delle piogge era una cosa viva di considerevoli dimensioni, una cosa con una propria voce che gridava tutto il giorno e la notte con la sua voce acuta e argentina. Era forse La Llorona, la donna che piange? La Llorona, quella che aveva affogato i propri figli. Forse avevano dato al fosso il nome La Llorona, pensa lei, dopo che le sono tornate in mente tutte le storie che aveva appreso da bambina.

Era La Llorona che la chiamava. Ne è sicura. Cleófilas stende la copertina del bambino sull’erba, quella con Paperino. Resta in ascolto. Il cielo che cambia da giorno a notte. Il bambino strappa ciuffi di erba e ride. La Llorona. Si domanda se è una cosa tranquilla come questa che spinge una donna a cercare le tenebre sotto gli alberi.

Quello di cui ha bisogno è… e ha fatto il gesto di portarsi con forza le natiche di una donna contro l’inguine. Maximiliano, quell’idiota puzzolente che abita dall’altra parte della strada, ha detto questa cosa e tutti gli uomini sono scoppiati a ridere, ma Cleófilas si è limitata a borbottare: grosero e ha continuato a lavare i piatti.

Lo sapeva benissimo che aveva detto così non perché fosse vero, ma più che altro perché era lui che aveva bisogno di andare a letto con una donna, invece di bere tutte le sere giù alla taverna e di tornare a casa da solo e barcollando.

Maximiliano, che si diceva avesse ammazzato la moglie in una rissa da taverna quando lei l’aveva minacciato con uno spazzolone. Sono stato costretto a spararle, aveva detto lui – era armata.

Le risate degli uomini arrivavano da fuori la finestra della cucina. Le risate del marito e dei suoi amici, Manolo, Beto, Efraín, el Perico. E di Maximiliano.

Forse Cleófilas stava esagerando, come diceva sempre il marito? Le sembrava che i giornali fossero pieni di storie del genere. Una donna trovata nella cunetta dell’autostrada. Un’altra gettata fuori da una macchina in corsa. Il cadavere di una, un’altra svenuta, un’altra massacrata di botte. E il suo ex marito, il marito, l’amante, il padre, il fratello, lo zio, l’amico, il collega di lavoro. Sempre la stessa storia. Le stesse raccapriccianti notizie sulle pagine dei quotidiani. Immerse un attimo un bicchiere nell’acqua saponata – rabbrividì.

Le aveva tirato addosso un libro. Il suo. Dall’altra parte della stanza. Una staffilata bollente sulla guancia. Quello l’avrebbe potuto perdonare. Ma la cosa che le faceva più male era che si trattava del suo libro, una storia d’amore di Corín Tellado, la cosa che le piaceva di più ora che viveva negli Stati Uniti, senza un televisore, senza le sue telenovelas.

Tranne ogni tanto, quando il marito non c’era e lei riusciva a guardarle, una puntata vista di straforo a casa della vicina Soledad, perché a Dolores non piacevano, anche se Soledad a volte era tanto gentile da raccontarle cosa era successo in un’altra puntata di María de Nadie, la povera ragazza di campagna argentina che aveva avuto la sfortuna di innamorarsi del bellissimo figlio degli Arrocha, la famiglia per cui lavorava, sotto il cui tetto dormiva e sui cui pavimenti passava l’aspirapolvere, mentre in quella stessa casa con la muta testimonianza di scope e detersivi per il pavimento, Juan Carlos Arrocha, con la sua mascella quadrata, le aveva mormorato parole d’amore, Ti amo, María, ascoltami, mi querida, ma era stata lei che gli aveva dovuto dire, No, no, non apparteniamo alla stessa classe e ricordargli che loro non potevano innamorarsi, e mentre gli diceva così il cuore le si spezzava, pensa un po’.

Cleófilas era convinta che anche la sua vita sarebbe stata così, come una telenovela, solo che ora gli episodi stavano diventando sempre più tristi. E non c’era neanche la pubblicità tra uno e l’altro a darle un po’ di sollievo. E neanche un lieto fine in vista. Pensava queste cose, mentre se ne stava seduta con il bambino sulla sponda del fosso dietro casa. Cleófilas de…? Però forse doveva cambiare nome: Topazio oppure Yesenia, Cristal, Adriana, Stefania, Andrea, insomma, qualcosa di più poetico di Cleófilas. Le cose succedevano sempre a donne che avevano nomi come gemme. E invece a Cleófilas che le succedeva? Niente. Oppure si beccava una sberla in faccia.

Perché glielo aveva detto il dottore. Doveva proprio andarci. Per assicurarsi che non succedesse niente al nuovo bambino, in modo che non avesse problemi quando sarebbe nato e la data dell’appuntamento era scritta lì sulla scheda, il prossimo martedì. Poteva accompagnarcela lui, per favore. Tutto qui.

Ma no, non gli avrebbe detto niente. Lo giurava. Se il dottore le chiedeva qualcosa, poteva sempre dire che era caduta dalle scale oppure che era scivolata quando era in giardino, che era scivolata sul retro, ecco cosa poteva dirgli. Deve proprio tornarci martedì prossimo, Juan Pedro, per favore, per il bambino. Per loro figlio.

Poteva scrivere a suo padre e chiedergli dei soldi, un semplice prestito, per le spese mediche del nuovo figlio. Be’, se lui preferiva di no. Va bene, non gli avrebbe scritto. Per favore, non farlo più. Per favore, no. Lo sa che è difficile mettere soldi da parte con tutte le bollette che hanno, ma come altro possono fare per togliersi il debito delle rate del nuovo camioncino? E dopo l’affitto, il cibo, l’elettricità, il gas e l’acqua e chissà che altro, be’, non ci rimane molto. Ma, per favore, almeno per la visita del dottore. Non chiederà nient’altro. Deve proprio andarci. Perché è così ansiosa? Perché sì.

Perché vuole assicurarsi che il bambino non si è girato dalla parte sbagliata questa volta e non la spaccherà in due. Sì. Martedì prossimo alle cinque e mezza. Juan Pedrito sarà vestito e pronto. Ma quelle sono le uniche scarpe che ha. Le luciderà e saremo a posto. Appena tu torni dal lavoro. Ti faremo fare bella figura.

Felice? Sono io, Graciela.

No, non posso alzare la voce. Sono al lavoro.

Senti, ho bisogno d’una specie di favore. Ho qui una paziente, una signora che ha un problema.

Be’, un momento. Ma mi stai a sentire o no?

Non posso parlare ad alta voce perché il marito è nella stanza accanto.

Ma mi vuoi stare a sentire un momento?

Le stavo per fare un’ecografia – è incinta, no? – e lei mi è scoppiata a piangere all’improvviso. Hijole, Felice! La povera donna ha lividi dappertutto. Dico sul serio.

Dal marito. Chi altro? Un’altra di quelle sposine dall’altra parte del confine. E la sua famiglia è tutta in Messico.

Cazzo! E tu pensi che quelli l’aiuterebbero? Ma fammi il favore. Questa qui non parla nemmeno inglese. Non le è stato permesso di chiamare i suoi, né scrivere né niente. Ecco perché t’ho chiamato.

Ha bisogno di un passaggio.

No, non fino in Messico, scema. Solo alla stazione del Greyhound. A San Antonio.

No, solo un passaggio. I soldi ce li ha. L’unica cosa che devi fare è darle un passaggio fino a San Antonio quando torni a casa. E dài, Felice. Per favore. Se non l’aiutiamo noi, chi lo farà? Ce la porterei io, ma deve salire su quell’autobus prima che il marito torni dal lavoro. Che ne dici, eh?

Non lo so. Aspetta un attimo. Subito. Anche domani. Be’, se domani per te non va bene…

D’accordo, Felice. Giovedì. Davanti al Cash & Carry dell’interstatale 10. A mezzogiorno. Sarà pronta.

Oh, si chiama Cleófilas.

Che ne so. Sarà una di quelle sante messicane, immagino.

Una martire o qualcosa del genere.

Cleófilas. c-l-e-o-f-i-l-a-s. Cle. O. Fi. Las. Scrivitelo.

Grazie, Felice. Quando le nascerà la figlia la dovrà chiamare come noi, giusto?

Già, hai detto giusto. Certe volte è proprio come uno sceneggiato. Qué vida, comadre. Bueno, ciao.

Per tutta la mattinata quella sensazione per metà paura, per metà dubbio. Da un momento all’altro Juan Pedro poteva presentarsi alla porta di casa. O per strada. Al Cash & Carry. Come nei sogni che aveva fatto.

Bisognava pensare anche a quello, sì, prima che la signora con il camioncino arrivasse. Poi non c’è stato più tempo di pensare a niente perché il camioncino era puntato dritto verso San Antonio. Metta le sue cose di dietro e salti su.

Però quando hanno attraversato l’arroyo, la donna al volante ha spalancato la bocca e ha lanciato uno strillo fortissimo che sembrava una mariachi. Uno strillo che aveva fatto saltare non solo Cleófilas, ma anche Juan Pedrito.

Pues, che carino. Vi ho fatto prendere un colpo, eh? Scusate. Vi avrei dovuto avvertire. Ogni volta che attraverso quel ponte, strillo. Per via del nome, capisce? Fosso della Strillona. Pues, io strillo. Parlava in uno spagnolo punteggiato d’inglese e rideva.

Ha mai fatto caso, aveva proseguito Felice, che da queste parti non danno mai ai posti nomi di donna? Sul serio. A meno che non si tratti della Vergine. Mi sa che qui si è famosi solo se si è vergini. Ed era scoppiata in un’altra risata.

Ecco perché mi piace il nome di quell’arroyo. Fa venire voglia di strillare come Tarzan, vero?

Ogni cosa di questa donna, di questa Felice, sbalordiva Cleófilas. Il fatto che guidasse un camioncino. Un camioncino, niente di meno, e poi quando Cleófilas le aveva chiesto se era del marito, aveva risposto che non ce l’aveva mica il marito. Il camioncino era suo. L’aveva scelto lei stessa. Lo stava pagando con i soldi suoi.

Prima avevo una Sunbird Pontiac. Ma quelle sono macchine per viejas. Macchine da femminucce. Questa sí che è una macchina vera.

Che razza di discorsi faceva questa donna? Cleófilas aveva pensato. Ma d’altra parte, Felice non somigliava a nessuna delle donne che aveva conosciuto. Pensate un po’, ogni volta che attraversava l’arroyo si metteva a strillare come una matta, avrebbe raccontato in seguito al padre e ai fratelli. Così, all’improvviso. Chi l’avrebbe mai immaginato?

Già, chi l’avrebbe immaginato? Per dolore o per rabbia, magari sì, ma non un urlaccio come quello che aveva lanciato Felice. Fa venire voglia di mettersi davvero a strillare come Tarzan, aveva detto Felice.

Poi Felice era scoppiata a ridere di nuovo, ma non era mica Felice a ridere. La risata gorgogliava fuori dalla gola di Cleófilas, un lungo nastro di risate che sembravano acqua.

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